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Diario di un viaggio in Tanzania

Aggiornamento: 7 mag 2022


È una decina di giorni che ormai siamo in Tanzania. Sono arrivata qui con Michele e la prima cosa che ho sentito uscendo dall’aeroporto è stato un caldo esagerato e una calma incredibile. Eravamo partiti pensando di andare in missione umanitaria, prima in un posto vicino a Dar Es Salam dalla nostra amica Devota, una ex parlamentare che ha a cuore questo paese e che si è sempre dedicata ai più poveri insegnando loro tecniche agricole e occupandosi di microcredito, poi a Zanzibar in una scuola per bambini piccoli. Devota è venuta a prenderci dall’aeroporto con tre giovani ragazzi, tutti estremamente calmi, lenti, molto pole pole come dicono loro, ma con un sorriso bellissimo. Dopo più di un giorno di viaggio Devota ci dice che deve andare a Zanzibar per una riunione, così andiamo con lei. Prendiamo un aereo da 10 persone, con i seggiolini scassati e le cinture come quelle della macchina, ma per fortuna siamo ancora qui.

Zanzibar ci incanta con un paesaggio da sogno, le stelle marine e le basse maree, ma siamo nel terzo mondo in mezzo alla povertà, alle case senza acqua ed elettricità dietro ai resort, alle galline, alle mucche e alle capre che mangiano ciò che trovano e ai bambini che ti chiedono le caramelle. Siamo in Africa, dove la gente ride anche se non ha quasi niente e se hai un pensiero di troppo, Hakuna Matata.

Passano i giorni e io e Michele ci troviamo a scuola, una scuola con più di 100 bambini dai 2 ai 5 anni. Dopo poco che siamo lì iniziano a giocare con noi, ad abbracciarci, a comunicare in swahili anche se non ci capiamo niente. Alcuni ridono e si divertono, altri piangono disperati, ma sono come i bambini di tutto il mondo mentre giocano, cantano e si rotolano nella sabbia. Conosciamo per caso una bambina di tre anni e non so perché, ma ci ruba il cuore, come se la conoscessimo da sempre. È una scuola piena di allegria, di canti e di colori e ci piace moltissimo stare con i bambini, anche se hanno già le loro maestre e non siamo realmente così utili come pensavamo di poter essere.

Così il viaggio si trasforma in una missione-vacanza. Con i giorni conosciamo delle persone, giriamo l’isola, vediamo i delfini, i pesci di tutti i colori, strisce di sabbia in mezzo ad un mare cristallino. Vediamo le tartarughe marine che sembrano quasi addomesticate, interagiamo con i camaleonti e mangiamo della frutta deliziosa.

Poi decidiamo di andare a visitare una nuova missione, quella di Marco, un signore italiano che ha creato una scuola per bambini e ragazzi con disabilità. Qui i disabili non si vedono da nessuna parte perché vengono tenuti nascosti nelle case. Alcuni nemmeno dicono di avere un figlio disabile. Marco di racconta che ha trovato un bambino dawn dentro ad una scatola in casa, mentre gli altri ha dovuto chiedere e cercare di villaggio in villaggio per sapere se ce ne fossero. Abbiamo conosciuto bambini sordomuti, bambini dawn e bambini cerebrolesi che stavano tutti insieme a giocare perché è già tanto che abbiano un posto dove stare qui sull’isola. Marco sta dando loro una nuova occasione per poter vivere normalmente e non più nascosti nelle loro case.

Poi torniamo al mare, vediamo le spiagge di Nungwi e Kendwa, meravigliose. Nell’acqua tiepida davanti al sole mi sciolgo e mi sembra di non esistere quasi più. Poi la sera ci troviamo al ristorante insieme ad alcuni amici italiani conosciuti qui e ad un ragazzo Masai. Ovviamente tutte le nostre attenzioni vanno sul ragazzo Masai, che trasuda di savana, un po’ come un milanese trasuda di città e shopping. È vestito con dei mantelli legati sulle spalle, dei sandali che si è costruito con le ruote di una macchina, dei braccialetti Masai colorati e una cintura con un bastone di legno con una specie di pomello e una sorta di coltello/spada. Ci spiega che il bastone serve per difendersi se si viene importunati (fino a ieri solo nei film lo avevo visto) e la specie di spada per tagliare la carne. Ci racconta del suo villaggio, della sua cultura, di come vivono. Circa un mese all’anno per andare in “vacanza” vanno nella foresta e mangiano della carne di mucca che allevano e si portano dietro (questo è quello che ho capito attraverso le sue spiegazioni), poi bevono dell’acqua con delle erbe per la pancia. Poi tornano nei loro villaggi con le capanne ad allevare le mucche. Ovviamente la domanda sorge spontanea: “ma veramente combattete contro i leoni?” . Il ragazzo Masai risponde mentre tutti aspettiamo incuriositi: “Non combattiamo davvero contro i leoni. Però mentre badiamo alle mucche che pascolano, oppure quando la sera torni a casa da un villaggio vicino potresti incontrare il leone. Se sei con le mucche il leone non le attacca, perché sa che c’è un uomo vicino. Così ti guarda da lontano con gli occhi bassi. E tu lo guardi da dove sei con gli occhi bassi. Così il leone gira intorno al tuo bestiame ma guarda sempre te negli occhi. E tu lo guardi. Quando non se ne accorge ti sposti e lui sente la tua intelligenza e in un certo senso la teme e la rispetta. Così spesso se ne va via…” “Ma se invece non se ne va e ti attacca?” “Accade a volte. Noi facciamo così: abbiamo sempre un bastone e lo teniamo in mano avvolgendolo con il nostro mantello e nell’altra mano abbiamo la lancia. Se il leone arriva vicino e vuole attaccare ha la bocca aperta, tu gli dai il braccio dove hai il bastone e lui pensa che sia il tuo braccio. Poi con la lancia lo colpisci e lui solitamente scappa. Se proprio attacca, a volte accade con le leonesse, lo si uccide, ma è raro. In quel caso poi chi uccide la leonessa si fa una specie di cappuccio con la sua pelle e la sera ci sono balli e canti.”

Torniamo così al nostro appartamento sotto la luna e le stelle che sono diverse da come le vediamo in Italia. In una strada buia perché non esistono i lampioni. In un paesaggio che sembra una poesia.

Di tutta questa storia che ho raccontato su questo viaggio, solo una cosa ritengo che sia davvero importante. Ci sono stati momenti, molti, moltissimi, in cui pur essendo qui avevo dei pensieri, delle idee e sentivo ancora il peso dei doveri di quando sono a casa. Questo mi impediva di godere di ogni istante, di essere leggera e spontanea, di godere del momento. E questo solo perché la mente vaga sempre da sé e racconta le storie più disparate, belle o brutte che siano senza godere davvero di ciò che c’è ora, ovunque ci troviamo, in qualsiasi parte del mondo. La maggior parte dei momenti che ho vissuto erano sempre coperti da un filtro. Ieri sera, mentre andavo con Michele alla cena con gli amici e il Masai camminavamo su un pontile e mi sentivo leggera. Ho iniziato a sentirmi libera, perché non avevo quasi più pensieri e quei pochi che c’ erano scorrevano e se ne andavano. Così ho potuto godermi di tutto ciò e vedere ciò che avevo vissuto con occhi diversi. Oggi sto male fisicamente dopo la cena di ieri sera e sono da sola nell’ appartamento, mentre Michele è andato dai bambini. Eppure mi sento così felice e libera, anche se sto male. Così ho notato e mi sento di dire che non è così importante che io sia proprio qui, in Africa, per sentirmi felice e libera. Posso esserlo ovunque. Posso esserlo sempre. Posso lasciare ogni giorno i pensieri, i desideri, i giudizi e lasciarmi andare, cogliendo così il momento. Oppure posso anche decidere di seguire ogni pensiero, i miei desideri, i doveri imposti dalla società, di preoccuparmi e avere paura, di sforzarmi ogni giorno di vivere una vita che non è ciò che il mio cuore desidera, ma tutto questo so già dove mi porterà, ad avere qualche sicurezza che potrei chiamare felicità e a fingere che questo in fondo mi vada bene. Ma non è questo ciò che voglio.

Così oggi, dopo più di un anno mi sono rimessa a scrivere, che è una cosa che amo fare, ma che non ho più fatto perché mi sentivo sempre pensierosa e pesante. Così da oggi proverò e mi impegnerò per essere sempre più leggera, per essere sempre più me stessa, affrontando ogni istante nel modo in cui si presenta. Ci proverò e invito ogni lettore a fare lo stesso.

Lascerò qualche foto di ciò che ho visto.

PS se qualcuno fosse interessato a donare qualcosa per le missioni che ho potuto visitare questi sono i contatti da cercare: -“Amici di Zanzibar e del mondo” per la scuola dei bambini piccoli. Con 100€ all’anno si manda a scuola un bambino, gli si danno due divise, sono pagate le visite mediche, le insegnanti, la merenda, il materiale scolastico e i locali della scuola. -“Zanzibar Help” per l’associazione che si occupa di bambini e ragazzi disabili.


di Chiara Fantini

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